di Nando Mainardi*
Sono passati cinquantacinque anni da quel 30
giugno 1960, in cui a Genova – medaglia d’oro al valore militare per la
Resistenza - una grande sollevazione popolare ed operaia impedì la celebrazione
del congresso nazionale del Msi. Fu una reazione sia contro il tentativo
esplicito di dare una nuova legittimazione al fascismo – la miccia che rese
definitivamente esplosiva la situazione fu l’annuncio della partecipazione al
congresso di Carlo Emanuele Basile, prefetto a Genova durante la Repubblica
Sociale di Salò – sia contro il governo democristiano presieduto da Tambroni che
- sostenuto in Parlamento dai parlamentari missini - puntava a ridurre
drasticamente gli spazi della democrazia e a tradire brutalmente la Costituzione
in chiave anticomunista e antioperaia. La sollevazione di Genova vide
l’incontro di due generazioni: quelli che avevano fatto la Resistenza e i
“ragazzi con le magliette a strisce”, giovani proletari cresciuti nella stagione
reazionaria del centrismo. Da Genova partì un moto popolare di indignazione e di
lotta che coinvolse gran parte del Paese, passò attraverso l’omicidio di undici
lavoratori da parte delle forze dell’ordine (tra cui i “morti di Reggio Emilia”)
e provocò la caduta di un governo distante anni luce dalla democrazia. I fatti
di Genova ci propongono due costanti della storia del Paese nel dopoguerra. Da
una parte la presenza di settori istituzionali, politici ed economici
esplicitamente antitetici alla democrazia e alla ricerca di soluzioni
autoritarie e fascistoidi, e dall’altra il movimento operaio, i comunisti a
difesa delle conquiste della Resistenza e in lotta per l’attuazione della
Costituzione. E’ esattamente il contrario di come in questi anni è stata
raccontata la storia del Paese. Per questo ricordare non è soltanto ricordare.
La memoria è politica.
* commissario Federazione Genova e componente
della segreteria nazionale del Prc
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