di Vincenzo Vasciaveo.
Parlando di Expo 2015, abbiamo già
analizzato in generale l’esigenza di trasformazione del modello agricolo
industriale insediatosi con la “rivoluzione verde” del secondo dopoguerra in
Italia.
Questa necessità di
cambiamento è sempre più urgente
– per gli effetti che il
modello agroindustriale produce in termini negativi sull’ambiente ( tra le
cause del riscaldamento climatico quella dovuta all’agricoltura industriale si
stima sia attorno al 40% dell’intero fenomeno);
– perché la crisi del sistema
agricolo ha le sue fondamenta proprio nel modello produttivo stesso, incapace
di garantire la sostenibilità economica se non attraverso i sussidi europei e
comunque con crescenti difficoltà per la media e piccola azienda;
– perché la sovranità
alimentare ( unica via d’uscita alle problematiche legate alla fame e alla
malnutrizione a livello mondiale) necessita, per realizzarsi, di un mutamento
complessivo di paradigma: dall’agroindustria globalizzata all’agroecologia su
base locale.
Il processo di trasformazione deve
quindi indirizzarsi verso l’agroecologia, che ha come base la conversione alle
coltivazioni biologiche, il presidio, anche paesaggistico, del territorio, la
produzione alimentare di piccola scala che fa uso di energie rinnovabili.
Gli ultimi dati ufficiali
disponibili ci permettono di valutare cosa stia avvenendo nella nostra regione,
nella quale osserviamo che:
– aumenta la dimensione media delle
aziende agricole, con una superficie media doppia rispetto al dato nazionale
– il calo delle unità aziendali è
drastico, quasi un quarto in dieci anni rispetto ai dati oggi a disposizione.
Siamo a circa 50.000 aziende agricole (il 3% sul dato nazionale)
– analoga tendenza è in atto anche
per gli allevamenti
– la SAU (superficie agricola
utilizzata) è attorno al milione di ettari, pari al 7/8 % del totale nazionale
– il settore biologico, seppure in
aumento, è ancora del tutto marginale rispetto al convenzionale, cioè quello
discendente dalla “rivoluzione verde” e basato sui prodotti di sintesi per la
fertilizzazione e la lotta ai parassiti.
L’offerta di prodotti biologici,
peraltro, si rivela del tutto insufficiente rispetto alla domanda che, in
Lombardia, è tra le più alte a livello nazionale
In sintesi, le esigenze ambientali
e di sostenibilità economica suggeriscono una direzione agroecologica e
l’agricoltura lombarda va agli antipodi di questa necessità.
Si sperava, da parte delle
esperienze pioniere legate al territorio e all’economia solidale, che la nuova
PAC (Politica Agricola Comunitaria) indirizzasse le risorse economiche
2014-2020 verso il sostegno al rinnovamento del sistema agricolo, agganciandone
progressivamente le sorti al territorio, alla conversione delle colture,
all’aumento della agrobiodiversità, ma gli obiettivi non si discostano
sostanzialmente dal sostegno al sistema agricolo vigente, se non per parti
residuali.
Siamo quindi diretti vesro
l’acuirsi progressiva della crisi agricola, essenzialmente causata dalla
impossibilità di fare reddito perché i prezzi, determinati dalla domanda e
dall’offerta e dalla speculazione finanziaria internazionale sul cibo, non
riescono a coprire i crescenti costi di produzione, portando alla continua
chiusura di aziende agricole e alla rincorsa alla grande dimensione, sperando
così in una diminuzione dei costi unitari che o è insufficiente o si scontra
con gli sprechi produttivi, figli della sovrapproduzione alimentare, e la
difficoltà di realizzazione a causa della forte concorrenza internazionale in
campo alimentare.
Che fare quindi?
Sarebbe necessario aprire
tavoli permanenti regionali di confronto sulle politiche agricole.
Le regioni, infatti, sono titolari
dei PSR (Programmi di Sviluppo Rurale) che destinano risorse europee
all’agricoltura e quindi hanno un importante ruolo di promozione ed indirizzo
settoriale.
Il PSR lombardo dispone di oltre
1.100 milioni di euro!
Oggi il valore della componente
agricola regionale si aggira attorno ai 7 miliardi di euro, che è circa il
14/15 % del totale nazionale.
Si comprende quindi quale sarebbe
il potenziale se si assumesse un diverso indirizzo regionale.
Un importante passo in questo senso
potrebbe svilupparlo la Città metropolitana milanese che ha al suo interno il
Parco Agricolo Sud Milano, il maggiore d’Europa coi suoi 47.000 ettari di cui
33.000 di SAU e le centinaia di aziende agricole presenti sul suo territorio.
Ma ormai si tratta purtroppo di
aspettare le imminenti elezioni comunali milanesi, visto che oggi tutti stanno
alla finestra per vedere chi guiderà l’area metropolitana.
Lo stesso Ente Parco Sud è in
attesa di vedere chi ne assumerà la gestione reale e quindi qualsiasi altra
proposta di aggiornarne le finalità, integrando gli scopi di tutela ambientale
con l’ormai indispensabile esigenza di farne un agente di promozione di
neoagricoltura (questione già posta), non sta trovando concreto ascolto.
In concreto l’impresa si rivela
difficilissima, anche perché non esiste un forte movimento delle rappresentanze
dell’agricoltura contadina e solidale e le rappresentanze sindacali
tradizionali non hanno colto, se non in parte, questa esigenza di mutamento di
rotta.
Quindi il principale compito che
dobbiamo porci è quello di costruire questo movimento a partire dalle
esperienze territoriali “pioniere” e sollecitando le amministrazioni
comunali più sensibili a porre in essere percorsi che rendano plausibili e
concreti i percorsi di agroecologia e di sovranità alimentare.
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