Pubblicato il 10 nov 2014di Luciana Castellina
Il muro di Berlino. L’89, un passaggio
ambiguo non solo gioiosa rivoluzione libertaria
Un pezzetto di quel muro caduto 25 anni fa ce
l’ho ancora sulla mia scrivania: un frammento di intonaco colorato che
strappai con le mie mani quando accorsi anche io a Berlino mentre ancora,
a frotte, quelli dell’est esondavano verso l’agognato Occidente. Furono
giornate gioiose attorno a quel simbolo di una guerra – quella fredda – che
era scoppiata meno di due anni dopo la fine di quella calda.
Per oltre quarant’anni quella frontiera, e già
molto prima che fosse eretto il muro, l’avevo attraversata solo
illegalmente: negli anni ’50 perché il mio governo non mi dava un
passaporto valido per i paesi oltre la cortina di ferro (dovevamo rimanere
chiusi nell’area della Nato) e perciò per parlarsi con tedeschi della Ddr,
ungheresi o bulgari si prendeva il metro a Berlino e dall’altra parte ti
fornivano una sorta di passaporto posticcio.
Poi, dopo la costruzione del muro, quando noi
potevamo legalmente andare ad est e invece quelli di Berlino est non
potevano più venire a ovest, ridiventammo clandestini: per potere
incontrare, senza incappare nella sorveglianza della Stasi, i nostri
compagni pacifisti del blocco sovietico, dissidenti rispetto ai loro
regimi, ma convinti che a una evoluzione democratica non sarebbero
serviti i missili perché solo il disarmo e il dialogo avrebbero potuto
facilitarla.
Per questo, gioia in quell’autunno dell’89
e anche un po’ di orgoglio per il merito che per questo esito aveva avuto
anche il nostro movimento pacifista, l’End «per un’Europa senza missili
dall’Atlantico agli Urali». Avevamo prodotto una deterrenza politica,
contribuendo ad isolare chi, per abbattere il muro, avrebbe voluto
scegliere la più sbrigativa via delle bombe.
E però l’89 non fu solo gioiosa rivoluzione
libertaria. Fu un passaggio assai più ambiguo, gravido di conseguenze,
non tutte meravigliose. Oggi è anche più chiaro, e così l’avverto
dolorosamente nella memoria che evoca in me. Peraltro quel 9 novembre di
25 anni fa per me, credo per tanti, non è dissociabile dalle date che
seguirono di pochi giorni: il 12 novembre, quando Achille Occhetto, alla
Bolognina, disse che il Pci andava sciolto; il 14, quando ce lo comunicò
ufficialmente alla traumatica riunione della direzione del partito di
cui, dopo che il Pdup era confluito nel Pci, ero entrata a far parte. Così
imponendoci – a tutti – la vergogna di passare per chi sarebbe stato
comunista perché si identificava con l’Unione sovietica e le orribili
democrazie popolari che essa aveva creato.
Non c’era bisogno della caduta del muro per
convincersi che quello non era più da tempo il modello dell’altro mondo
possibile che volevamo, non solo per noi che avevamo dato vita al
Manifesto, ovviamente, ma nemmeno più per la stragrande maggioranza degli
iscritti al Pci e dei suoi elettori.
Ma non si trattava soltanto della sinistra
italiana, il mutamento che segnò l’89 ha avuto portata assai più vasta: è in
quell’anno che si può datare la vittoria a livello mondiale di questa
globalizzazione che tuttora viviamo, accelerata dalla conquista al
dominio assoluto del mercato di quel pezzo di mondo che pur non essendo
riuscito a fare il socialismo gli era tuttavia rimasto estraneo.
Ci fu, certo, liberazione da regimi diventati
oppressivi, ma solo in piccola parte perché non aveva vinto un largo moto
animato da un positivo disegno di cambiamento: c’era stata, piuttosto, la
brutale riconquista da parte di un Occidente che proprio in quegli anni,
con Reagan, Tatcher, Kohl, aveva avviato una drammatica svolta
reazionaria. Al dissolversi del vecchio sistema si fece strada, arrogante
e pervasivo, il capitalismo più selvaggio, sradicando valori
e aggregazioni nella società civile, lasciando sul terreno solo
ripiegamento individuale, egoismi, corruzione, violenza. Il coraggioso
tentativo di Gorbaciov non era riuscito, il suo partito, e la società in
cui aveva regnato, erano ormai decotte e rimasero passive.
E così il paese anziché democratizzarsi
divenne preda di un furto storico colossale, ci fu un vero collasso che privò
i cittadini dei vantaggi del brutto socialismo che avevano vissuto senza
che potessero godere di quelli di cui il capitalismo avrebbe dovuto essere
portatore. (A proposito di democrazia: chissà perché nessuno, mai,
ricorda che solo tre anni dopo Boris Eltsin, che aveva liquidato Gorbaciov,
arrivò a bombardare il suo stesso Parlamento colpevole di non approvare
le sue proposte?).
Come scrisse Eric Hobsbawm nel ventesimo
anniversario del crollo «il socialismo era fallito, ma il capitalismo
si avviava alla bancarotta».
Avrebbe potuto andare diversamente? La storia, si sa, non si fa con i se, ma riflettere sul passato si può e si deve ( e purtroppo non lo si è fatto che in minima parte).
Avrebbe potuto andare diversamente? La storia, si sa, non si fa con i se, ma riflettere sul passato si può e si deve ( e purtroppo non lo si è fatto che in minima parte).
E allora è lecito dire che c’erano altri
possibili scenari e che se la storia ha preso un’altra strada non è perché
il «destino è cinico e baro», ma perché a quell’appuntamento di Berlino si
è giunti quando si era già consumata una storica sconfitta della sinistra
a livello mondiale. L’89 è una data che ci ricorda anche questo.
Le responsabilità sono molteplici. Perché
se è vero che il campo sovietico non era più riformabile e che una rottura
era dunque indispensabile, altro sarebbe stato se i partiti comunisti ,
in Italia e altrove, avessero avanzato una critica aperta e complessiva di
quell’esperienza già vent’anni prima, invece di limitarsi – come avvenne nel
’68 in occasione dell’invasione di Praga – a parlare solo di errori.
In quegli anni i rapporti di forza stavano
infatti positivamente cambiando in tutti i continenti ed era ancora
ipotizzabile una uscita da sinistra dall’esperienza sovietica, non la
capitolazione al vecchio che invece c’è stata. E così nell’89, anziché
avviare finalmente una vera riflessione critica, si scelse l’abiura, che
avallò l’idea che era il socialismo che proprio non si poteva fare.
Gorbaciov restò così senza interlocutori per
portare avanti il tentativo di dar almeno vita, una volta spezzata la
cortina di ferro, a una diversa Europa. Un’ipotesi che aveva perseguito con
tenacia, offrendo più volte lui stesso alla Germania la riunificazione in
cambio della neutralizzazione e denuclearizzazione del paese.
Fu l’Occidente a rifiutare. Mancò all’appello,
quando unilateralmente il presidente sovietico diede via libera
all’abbattimento della cortina di ferro, il più grande partito comunista
d’occidente, quello italiano, frettolosamente approdato all’atlantismo
e impegnato ad accantonare, quasi con irrisione, il tentativo di una
“terza via” fondata su uno scioglimento dei due blocchi avanzata da
Berlinguer alla vigilia della sua morte improvvisa.
E mancò la socialdemocrazia, che aveva in
quell’ultimo decennio marginalizzato gli uomini che pure si erano con
lungimiranza battuti per una diversa opzione: Brandt, Palme, Foot, Kreiski.
È così che l’89 ci ha consegnato un’altra sconfitta, quella dell’Europa. Che
perse l’occasione di costruirsi finalmente un ruolo e una soggettività
autonome, quella “Casa comune europea” che Gorbaciov aveva sostenuto
e indicato, e che trovò solo un simpatizzante – ma debolissimo — in Jaques
Delors, allora presidente della Commissione europea.
Nell’89 l’Unione Europea avrebbe finalmente
potuto coronare l’ambizione di liberarsi dalla sudditanza americana che
l’esistenza dell’altro blocco militare aveva facilitato, e invece si ritrasse
quasi spaventata. Avviandosi negli anni successivi lungo la disastrosa
strada indicata dalla Nato: ricondurre al vassallaggio le ex democrazie
popolari per poter estendere i propri confini militari fino a ridosso della
Russia.
Non andò molto meglio neppure in Germania.
Anche qui ci fu certo la grande gioia della riunificazione del paese che
aveva vissuto la dolorosissima ferita della divisione, ma anche qui, più
che di un nuovo inizio, si trattò di una annessione condotta secondo le
regole di un brutale vincitore.
A 25 anni di distanza la disuguaglianza fra
cittadini tedeschi dell’ovest e dell’est è più profonda di quella fra nord
e sud d’Italia, perché la «Treuhand» incaricata di privatizzare quanto
era pubblico nell’economia della Ddr preferì azzerare le imprese per lasciar
il campo libero alla conquista di quelle della Rft. Cinque anni fa nel
commemorare il crollo del muro il settimanale Spiegel rese noti
i risultati di un sondaggio: il 57% degli abitanti della ex Germania
dell’est – che dio solo sa quanto era brutta – ne avevano nostalgia.
Oggi probabilmente quella che viene
chiamata «Ostalgie» è cresciuta. (Fra i miei ricordi c’è anche una
cena con Willi Brandt non molto tempo prima della sua scomparsa: tornava da un
giro ad est in occasione della prima campagna elettorale del paese
riunificato ed era desolato per come la riunificazione era stata
condotta. La Spd non aveva del resto nascosto, sin dall’inizio, la sua
contrarietà a come era stato avviato il processo).
Per tutte queste ragioni non condivido la
spensierata (agiografica) festosità che accompagna, anche a sinistra, la
celebrazione del crollo del Muro. Soprattutto perché – e questa è forse la
cosa più grave – l’89 è anche il tempo in cui per milioni di persone prende
fine la speranza – e persino la voglia – di cambiare il mondo, quasi che il
socialismo sovietico fosse stato il solo modello praticabile. E via via
è finita per passare anche l’idea che tutto il secolo impegnato a costruirlo
anche da noi era stata vana perdita di tempo.
Un colpo durissimo inferto alla coscienza e alla
memoria collettiva, alla soggettività di donne e uomini che per questo
avevano lottato. E nessuno sforzo per riflettere criticamente su cosa era
accaduto per trarre forza in vista di un più adeguato nuovo progetto. Non
è un caso che anche i posteriori tentativi di dar vita a nuovi partiti di
sinistra abbiano prodotto formazioni tanto impasticciate: perché
incapaci di fare davvero i conti con la storia. E perciò qualche ristagno
ideologico o la resa a un pensiero unico che indica il capitalismo come
solo orizzonte della storia.
Nel dire queste parole amare rischio come
sempre di fare la nonna noiosa che continua a rimuginare sul passato senza
guardare al presente. So bene che ci sono oggi nuovi movimenti animati da
generazioni nate ben dopo la famosa storia del Muro che si propongono
a loro modo di inventarsi un mondo diverso.
Ma non mi rassegno a subire senza reagire il
disinteresse che avverto in tanti di loro per il nostro passato, non perché
vorrei ci assolvessero dai nostri errori, ma perché non sono convinta si
possa andar lontano se non si ha rispetto storico per quanto di eroico
e coraggioso, e non solo di tragico, c’è stato nei grandi tentativi, pur
sconfitti, del ‘900; se non si avverte quanto misera sia l’enfasi posta oggi su
un’idea di libertà — quella ufficialmente celebrata in questo
venticinquennale del Muro — così meschina da apparire arretrata persino
rispetto alla rivoluzione francese dove almeno era stato aggiunto
uguaglianza e fraternità, ormai considerati obiettivi puerili
e controproducenti: il mercato, infatti, non li può sopportare.
Non ho molta credibilità nel proporre la
creazione di partiti, l’ho fatto troppe volte nella mia vita e non con
straordinario successo. E tuttavia ora ne vorrei davvero fare uno: il
partito dei nonni. Non perché insegnino ai giovani cosa devono fare, per
carità, ma perché vorrei che almeno due generazioni uscissero dal mutismo
in cui hanno finito per rinchiudersi, intimiditi da rottamatori di destra
e di sinistra.
Vorrei che riprendessero la parola,
riacquistassero soggettività: per dire che sulla storia di prima del
crollo del muro vale la pena di riflettere, perché si tratta di una storia
piena di ombre, ma anche di esperienze straordinarie ( a cominciare dalla
rivoluzione d’ottobre di cui giustamente Berlinguer disse che aveva perso
la sua spinta propulsiva, non che era meglio non farla). Buttare tutto nel
cestino significa incenerire ogni velleità di cambiamento, di futuro.
Per finire: da quando è caduto il muro di
Berlino ne sono stati eretti altri mille, materiali (Messico/Usa;
Israele/Palestina, Pakistan/India .….ultimo Ucraina/Russia) e non (vedi la
disuguaglianza globale e i muri europei «a mare» nel Mediterraneo e di
terra a Melilla, contro i migranti). Non proprio una festa.
fonte: il manifesto, 7.11.2014
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