Pubblicato il 9 dic 2014
di Domenico Moro – da controlacrisi.org“Ma a rileggere le carte giudiziarie quello che colpisce di più è proprio quanto <<Mafia capitale>> sia e si comporti da impresa.”Il Sole24ore, 7 dicembre 2014
La vicenda di “Mafia Capitale” è l’occasione per
alcuni, a partire da Confindustria e dal governo Renzi, per riproporre le
privatizzazioni negli enti locali, in particolare le privatizzazioni delle
municipalizzate, e il solito refrain della “casta” e dei partiti corrotti.
Secondo questa vulgata, l’ingresso del privato sarebbe la panacea ai mali della
gestione partitica della cosa pubblica.
Peccato che quanto è stato scoperchiato
dalla magistratura a Roma non sia altro che il diretto portato di anni di
politiche di privatizzazioni nonché di trasformazioni in senso nuovista e
“anticasta” della politica. Infatti, negli ultimi anni la gestione dei servizi
comunali a Roma è stata sempre di più esternalizzata ed affidata a imprese
private e al cosiddetto “terzo settore”. Tutto questo coerentemente con il
principio di “sussidiarietà”, a sua volta collegato a un altro processo, quello
del decentramento amministrativo, altra supposta panacea ai mali del Paese. Il
risultato è stato tutto fuorché efficienza e risparmio. Del resto, le vicende di
Roma non sono che l’ultimo capitolo di una lunga serie di episodi di corruzione
che da tempo interessano tutto lo Stivale, ultime Milano con il cosiddetto
sistema Sesto e l’Expo, Venezia con il Mose, fino a Napoli e Reggio Calabria. A
quanto pare anni di denunce della “casta” e di interpretazione della corruzione
come deviazione etico-morale della politica non hanno dato grandi risultati.
Perché? Perché le radici della corruzione non sono etico-morali bensì materiali:
sono quegli stessi processi di trasformazione dell’economia, della politica e
dei partiti, che sottendono alla polemica contro la casta, ad aver generato le
basi su cui alligna corruzione e malaffare. Gli eventi di Roma non sono altro
che la riproduzione, in sedicesimo e alla “de noantri”, di quanto avviene con
“stile” e su una scala maggiore ad un livello più alto. Chi denuncia i legami e
gli intrecci tra imprenditori, politici, e burocrati pubblici a livello romano
dovrebbe tenere conto che è a partire dal livello nazionale e sovrannazionale
che la politica e la burocrazia sono oggi direttamente integrate con i poteri
economici privati. Senza contare Berlusconi sul cui conflitto d’interesse è
quasi superfluo dilungarsi, gli ultimi governi della Repubblica sono stati
diretti da uomini come Monti, Letta e Renzi e infarciti di uomini e donne i cui
legami con il mondo delle grandi imprese e delle banche e con il capitale
europeo e transnazionale sono arcinoti. Bilderberg, Aspen Institute,
Trilaterale, ecc. sono sedi di incontro meno caserecce di quelle romane ma il
principio di integrazione tra i livelli della società civile e politica è lo
stesso. Le conseguenze sono forse legali ma di certo più devastanti, come
provano le politiche di austerity europee e i vantaggi, a danno della
collettività, acquisiti dalle banche e dalle multinazionali con il processo di
integrazione europeo. Tra questi effetti c’è anche la trasformazione della
politica e dei partiti, che da tempo non sono più organismi con una vera vita
democratica interna. E per quale ragione dovrebbe averla? I parlamenti nazionali
e i partiti stessi sono stati espropriati in buona parte della rappresentanza
formale degli interessi della società e del processo decisionale. Le linee di
politica economica, di politica estera e le architetture istituzionali vengono
discusse e decise dai politici di vertice riuniti a livello sovrannazionale, che
poi tornano nelle rispettive sedi nazionali e con il “ce lo chiede l’Europa”
impongono le loro scelte a parlamenti e lavoratori. In questo contesto, il ruolo
dei “corpi intermedi” rappresentanti delle varie componenti della società non
può più essere quello di prima, su questo Renzi è stato chiaro. In particolare,
che senso avrebbero partiti con un vero dibattito e un processo decisionale
interno? Nessuno. Difatti, è mutata finanche la forma del partito. Il modello
idealtipico di partito è quello del Pd, di cui Renzi, in linea di continuità con
Veltroni, si fa teorico e pratico più conseguente: personalistico, pigliatutto e
“liquido”, cioè con una struttura debole. Gli iscritti ai partiti non contano
più nulla, neanche su un piano formale. Infatti, le decisioni sui candidati
vengono prese attraverso primarie aperte a tutti che umiliano gli iscritti e
rendono vana la partecipazione alla vita di partito, favorendo giochetti e colpi
bassi tra i candidati, come si è visto proprio a Roma. In questa situazione non
c’è da meravigliarsi se i livelli dirigenziali locali del partito diventano
terreno di scontro tra correnti o, per essere più precisi, tra gruppi di potere,
le cui divisioni rimandano sempre meno a differenze tra orientamenti politici di
fondo e sempre più a contrasti per la spartizione di incarichi e di quel poco o
tanto di risorse che rimangono dopo le spending review e il fiscal compact.
Nella Prima Repubblica ci si accaparrava risorse per il partito, oggi ci si
accaparra risorse per sé stessi o al massimo per il proprio gruppo. Dunque, al
di là delle responsabilità legali c’è una corruzione e una responsabilità
politica per quanto accade, anche peggiore di quella dei Fiorito e dei
partecipanti a “Mafia Capitale”. La corruzione di chi si fa espressione diretta
degli interessi di una piccolissima parte, quella del grande capitale senza
legami nazionali, contro quelli della maggioranza della società civile e in
particolare dei lavoratori. Qui non si parla di Suv o ville, di mazzette per
dieci o centomila euro, ma di potere vero, quello di indirizzare la vita di
decine o centinaia di milioni di persone. Ma c’è un altro e importante elemento
che si produce coerentemente con questo quadro. La convergenza e l’omologazione
verso gli interessi dominanti fa sì che le differenze tra i partiti principali e
tra centro-destra e centro-sinistra si annullino o diventino minime, favorendo
il sorgere delle larghe intese, che di fatto hanno retto tutti gli ultimi tre
governi. Le riforme del mercato del lavoro e delle pensioni ne sono solo alcuni
esempi. L’Italicum, non a caso voluto fortemente da Renzi, accentuerà tale
convergenza, favorendo il bipartitismo e permettendo a partiti che hanno il voto
di una minoranza dell’elettorato di governare e di farlo senza troppi controlli
da parte di un Parlamento ridotto al fantasma di sé stesso. È su questo humus
che sorgono le convergenze, apparentemente contro natura, anche a livello
romano, tra destra e sinistra. Dunque, perché meravigliarsi se a Roma un uomo di
estrema destra è il sodale in affari illegali di un uomo di Legacoop? Le
campagne mediatiche contro la “casta” hanno contribuito non poco ad accelerare
la trasformazione dei partiti e della politica al punto in cui siamo arrivati,
attraverso la destrutturazione delle vecchie forme organizzative e la
delegittimazione del Parlamento, che ha favorito il rafforzamento dell’esecutivo
e della figura del premier. Da “Mani pulite” ad oggi il nuovismo e l’esaltazione
della società civile “buona” contro la politica “cattiva” hanno prodotto quello
che abbiamo sotto gli occhi. Renzi è solo l’ultimo prodotto di questa tendenza,
letteralmente sospinto, in un brevissimo lasso di tempo, con una campagna
mediatica rutilante e appoggiato dai settori dominanti del capitale italiano e
internazionale dalla poltrona di sindaco di Firenze a quella di palazzo Chigi.
Le reprimende morali, comprese quelle del Papa, non servono a niente. Il senso
comune oggi attribuisce la crisi italiana alla corruzione e all’inefficienza del
ceto politico. Al contrario, la corruzione è il prodotto materiale di
determinati rapporti di produzione e sociali e la crisi italiana è dovuta alla
crisi di quei medesimi rapporti di produzione capitalistici. La maggiore
responsabilità dei vertici dei principali partiti è semmai quella di essere
stati fedeli esecutori delle “riforme” ispirate e volute da grandi imprese e
banche. La putrefazione della politica non è altro che la conseguenza della
putrefazione del capitale, incapace a valorizzarsi “normalmente” e teso a
cercare occasioni di profitto dovunque e comunque. È su questo corpo in
putrefazione che ha attecchito la pianta parassitaria di “Mafia capitale”.
Parassitaria sì, ma impresa a tutti gli effetti, come rileva con meraviglia il
quotidiano di Confindustria, riportando le parole di Carminati: “Ci si muove
solo di guadagno, compà…altre cose non interessano”. Eppure, oggi, si ritorna
alla carica con la privatizzazione delle aziende municipalizzate che operano in
settori profittevoli come l’energia e l’acqua, ghiotte prede per un capitale
alla ricerca di profitti monopolistici e sicuri. Non a caso Renzi si è scontrato
con Marino proprio sulla privatizzazione di Acea, il primo fornitore italiano di
servizi idrici, che è controllato dal Comune con il 51% e che ha fatto
registrare una crescita dell’utile netto nei primi nove mesi del 2014 di ben il
7,9%. La privatizzazione del’Acea favorirebbe uno dei maggiori costruttori
romani, Caltagirone, che oggi ne possiede già il 16,34%. Il vero problema
dell’Italia e dell’Europa nel suo complesso sta nell’essersi abbandonate alla
spontaneità dell’accumulazione capitalistica e, conseguentemente, nella mancanza
di una progettualità, di un piano a livello industriale, infrastrutturale e
sociale che non sia il rispetto delle direttive neoliberistiche della
Commissione Europea e della Bce. La soluzione non è il ritiro dello Stato a
favore dell’economia privata e, nella fattispecie, la privatizzazione delle
aziende municipalizzate o statali, ma la ricollocazione al centro dell’agenda
politica di un intervento veramente e correttamente pubblico nell’economia e
nella società. Ma quale Stato e quale pubblico dovrebbe incaricarsi di farlo? Lo
Stato e il pubblico non sono neutrali dal punto di vista sociale, tanto meno
oggi, in cui l’integrazione tra istituzioni e capitale è così pervasiva. A
dispetto della vulgata, capitale/mercato e Stato non sono alternativi, anzi il
capitale ha sempre avuto bisogno dello Stato. Per questa ragione non è possibile
pensare di cambiare le cose con critiche morali al ceto politico o semplicemente
appellandosi alle istituzioni “pulite”. È possibile farlo solo con la ripresa di
un vasto processo di lotta di massa insieme politica e sociale che si ponga
l’obiettivo, in prospettiva, della trasformazione dei rapporti di produzione.
Ciò, ovviamente, richiede il recupero della pratica di una altra politica, che
si basi sulla definizione di orientamenti di fondo alternativi e sulla
partecipazione dei lavoratori, e la affermazione di un altra tipologia di
partito, che si fondi su di una vera vita democratica interna.DOMENICO MORO
da Contro la crisi
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